La Rando Arcobaleno ha colorato la Campania
SORRISI, ARCOBALENO, FACC ‘E BIKE E TITERNO
E finalmente è Rando Arcobaleno.
Giù dalla sella stavolta per dare una mano a quelle Facc ‘e bike della famigliola della bici nella quale mi ritrovo catapultato da un anno a questa parte.
Finalmente ho la possibilità di non faticare sui pedali ma di provare a fare qualcosa di buono per gli altri, visto che in sella non è che figuri bene, a meno che non decida di travestirmi di bianco e fare da controfigura all’omino della Michelin, vista la mia corpulenta figura (e mi sono trattato).
La prima riflessione del mattino, rimandando a memoria il percorso, i punti di controllo e le strade da percorrere, riguarda un fatto assai curioso che mi mette di umore ironico: la Rando Arcobaleno sembra più un pellegrinaggio che un brevetto ARI.
Partono (loro) e, proti via, bisogna arrampicarsi sulla salita che conduce a Durazzano passando dalla cappella del Santo Spirito che, se la prendi di foga (la salita), in cima il rischio è quello di incrociarne la visione. Ma sono ben conscio che il motto dei randonneur: “né forte né piano, ma lontano”, guiderà bene gli amici che hanno scelto di onorare questa manifestazione. Da lì in rapida discesa, in una gola rocciosa fra il monte Longano e il monte Burrano, si va a Sant’Agata de’ Goti spettacolare cittadina di epoca Longobarda patria della Mela Annurca e di splendidi scorci che gli amici di certo apprezzeranno. Rapido passaggio dalla Valle del Diavolo, doverosa commistione tra sacro e profano, sulla strada che conduce, attraverso San Tommaso (ecco qua) a Frasso Telesino. Ripasso ancora le strade e i nomi dei luoghi e dico fra me e me che questa è la parte meno sacra e più semplice del percorso.
Attraverso la media valle del Volturno si raggiungerà Telese, dove i randonneur avranno l’opportunità di trovare un bel ristoro presso il parco delle Antiche Terme Jacobelli (fiore all’occhiello della cittadina termale). Ecco finalmente il tratto nuovo di questa terza edizione: prima il controllo/ristoro all’abbazia benedettina di San Salvatore Telesino (e ve lo dicevo che sembra un pellegrinaggio) e poi i nostri audaci si dirigeranno verso Guardia Sanframondi (che non so perché si chiama così e il Santo lo tiene già da sola) cittadina che ha più volte ospitato l’arrivo del Giro d’Italia.
La strada, lungo un bellissimo tratto immerso tra i vigneti, conduce a Cerreto Sannita, Faicchio e poi, altro che “mai una Gioia” si passa da Gioia Sannitica, San Potito Sannitico (che ha un nome oltre che mistico che fa venire anche fame perché la pronuncia sembra “potetoes” in inglese) Piedimonte Mate-sé (dove gli abitanti se la tirano tutti), Sant’Angelo d’Alife (non scherzo si chiama davvero così, voi non mi credevate) Raviscanina e… giro di boa verso Caiazzo (che di mistico nel nome ha davvero poco) e il saliscendi mordi e fuggi fino a Limatola; ritorno da Valle di Maddaloni dove dall’alto ti guarda San Michele (dal suo santuario) compassionevole per quella “testolina gloriosa” che si ritrovano questi “matti” a fare le randonnée con il vento che non si ferma mai e che è diventato un gadget gentilmente offerto dall’ASD Facc’ e Bike.
Insomma una corsa che unisce la meraviglia del territorio campano delle aree interne “quelle marginali” (che menomale che sono marginali che sennò inguaiavano pure quelle) con la difficoltà tecnica dell’affrontare ripidi strappetti e saliscendi continui lungo i 190 km del percorso bellissimo che si snoda, nervoso, tra colline del Titerno, tinte dal verde del grano “acerbo”, dal tenero pallore dei pampini della vite che provano a fare capolino dalle perule delle gemme, dal rosa dei peschi e dei mirabolani e dal bianco dei susini. Lo scenario è questo, che si apre come un palcoscenico appena superata Valle di Maddaloni dove l’Acquedotto Carolino funge da vero e proprio sipario tra il cemento dell’hinterland napoletano e le meraviglie del Sannio caudino. La mattinata si preannuncia ventosa quando alle 7.00 in auto (beato me) parto per raggiungere San Salvatore Telesino dove sarò a presidio del punto di controllo che è spartiacque tra percorso lungo e percorso breve. Qui sono di casa avendo lavorato per alcuni anni proprio in questa zona e quindi faccio addirittura a meno del navigatore, andando a naso, e concedendomi una playlist di brani dei Pink Floyd sparati a palla con annesso cicchetto di the verde per darmi quella scossa di adrenalina che oggi la bici non potrà darmi. Mi accoglie, presso l’antica Abbazia Benedettina datata a prima dell’anno 1000, dove nel 1098 soggiorno il Filosofo-Teologo Sant’Anselmo d’Aosta (citazione intellettualoide), Luigi Cofrancesco appassionato e storico promotore di circuiti MTB nonché organizzatore del Campionato Italiano Assoluto MTB CX del 1999. Insieme a me c’è quella sagoma del mio amico Michelangelo (notoriamente la coda del gruppo) che arriva più tardi e che ancora una volta mi fa esclamare a gran voce: “Guagliù ma Michelangelo???”.
Luigi si presenta con due enormi “scafareje” piene di buonissima “panzanella”.
Due incisi. La scafareja (in napoletano) è il vaso, la ciotola (dal greco scaphos) nel quale si versava il cibo. La panzanella (traslitterazione di pane molle) è un piatto povero tipico dell’Italia centro-meridionale costituito da qualcosa di duro (pane o tarallo secco), pomodori e olio extravergine che da queste parti trova il suo territorio di elezione grazie alla cultivar Racioppella in grado di donare un olio di colore verde smeraldo dal sapore fruttato intensissimo.
Ecco, la panzanella riempiva le scafareje e poi le “panze” dei randonneur che a partire dalle 9.00 si sono precipitati al punto di controllo. La posizione di ingresso è in curva, si nota poco, per cui decidiamo di attivare l’avviso sonoro: ad ogni bici che passa lanciamo un urlo “CONTROLLO” che mi sentono pure a quello delle terme Jacobelli 4 km più giù, col risultato che li becchiamo tutti.
Alle 11.00, d’improvviso, quel monello di Eolo decide di rendere le cose più difficili. E vuoi mettere? Sole si, ma il vento non può mancare… e quindi si sbizzarrisce, col risultato che volano ciotole, piatti, bottiglie, tovaglioli, sacchetti, biciclette ed improperi misti a sorrisi.
Quanti sorrisi ho visto?!
Fatica e sorrisi. Pane e sorrisi, Fragole e sorrisi, Banane e sorrisi, panzanella e sorrisi, Luigi e sorrisi, Michelangelo e sorrisi, Bici e sorrisi.
È meraviglioso! Tu pensi che ci resterai male perché ti perderai il divertimento di pedalare ed invece, gli amici che passano al controllo, ti regalano la più bella delle giornate fuori dal sellino.
Li aspettavo uno ad uno (quelli che conosco di più) quelli che no, lo stesso, perché accogliere con un sorriso chi fa fatica è la nemesi dell’ospitalità e la mimesi del randonneur.
Sorrisi che accoglie anche questa terra bellissima ai piedi del Matese fra tradizioni di agricoltura e pastorizia. Viticoltura e transumanza. Aroma di mosto e profumo di formaggio pecorino. Amaro di fatica e olio. La fatica del contadino che ama la terra e la fatica del randonneur che ama la strada, si fondono alla perfezione; questi elementi così lontani e pure così vicini, segno che il binomio bici e territorio è inscindibile. Tanto perfetto che è quasi stechiometrico (misura perfetta della compatibilità tra elementi chimici).
Ancora una volta abbiamo avuto la riprova che chi chiede ospitalità con sorriso, riceve accoglienza con sorriso. Le piccole comunità, spesso desolate, trovano in momenti di animazione come questi, una linfa per non mollare. Per continuare a vivere (di poco lavoro e tanta fatica) in questi immensi e bellissimi luoghi. Bisogna dare continuità a questi progetti, a questi eventi semplici e splendidi che sono le randonnée.
Chi propone il bello riceve il sorriso del bello. Chi vive delle felicità altrui vive tanto più felice egli stesso.
Mi sono riempito gli occhi di bellezza, fatica (non mia) e sorrisi.
I sorrisi stanchi di Concetta, Gabriella e Paolo.
Il sorriso un po’ preoccupato ed amaro di Enzo.
I sorrisi di chi sa che vorrebbe esserci ma non può come quelli di Marilena ed Amedeo.
I sorrisi sornioni di Antonio, Carmen e Gianluca.
Il sorriso genuino di Michelangelo.
Il sorriso di Anna alla sua prima impresa, ed il sorriso fiero di Gaetano.
I sorrisi soddisfatti di Pietro, Salvatore, Mauro, Francesco e Danny, dei Gemelli e di Francesco.
I sorrisi ritrovati di Saverio, Pietro e Giorgio.
I sorrisi generosi di Giuliano e Domenica.
Il sorriso giocherellone di Gianni.
I sorrisi degli amici delle pro-loco e dei sindaci dei Comuni.
I sorrisi degli amici in bici: Pamela, Anita, Donato, Luca, Antonio, Tonia, Onofrio, Giuseppe, Davide, Rosario, Domenico, Pierino, Christian… e i sorrisi.
Nella mia vita, parecchio amara degli ultimi tempi, sto imparando a farne scorta. Me ne sono mancati parecchi.
E poi come una costante nella mia vita ricorre di nuovo il vecchio adagio di un mio vecchio amico generale della corona inglese:
“Ricorda: il miglior modo per essere felici è quello di procurare felicità degli altri”.
Magari con i colori dell’Arcobaleno.